mercoledì 17 gennaio 2018

Si può parlare di razze umane?

No, il termine razza non è scientifico: gli uomini non sono stati isolati geograficamente abbastanza a lungo da creare varietà genetiche distinte. L’uomo è da sempre in continuo movimento e le varietà continuano a diluirsi una nell’altra.
Come ha dimostrato il genetista Luca Cavalli-Sforza, che ha demolito i fondamenti biologici del concetto di razza, le civiltà non sono strutture chiuse e isolate.

GENI COMUNI. La somiglianza genetica del genere umano è frutto della comunanza di antenati recenti e delle migrazioni, che hanno determinato unioni e scambi di geni fra individui provenienti da aree geografiche diverse. Le caratteristiche fisiche predominanti di certe popolazioni dipendono invece da un numero molto ridotto di geni e sono state selezionate dalle condizioni ambientali.

RAZZISMO VS SCIENZA. Richard Lewontin fu il primo genetista a smentire senza ombra di dubbio il mito dell’esistenza di differenti razze umane. Eppure, quando gli chiesero se lui credesse nella razza, la sua risposta fu: «Certo, le razze esistono». Salvo poi indicarsi la testa e aggiungere: «sono tutte quante qui». Faceva riferimento, ovviamente, alla nostra immaginazione: l’unico “luogo” dove le superficiali differenze tra le diverse popolazioni umane vengono prese ancora sul serio. E allora, perché di fronte a evidenze così schiaccianti facciamo ancora fatica ad abbandonare questo pregiudizio?
Una cartina tedesca ottocentesca con la distribuzione delle razze.
RAGIONI STORICHE. Nata per necessità politiche nel mondo postcoloniale, da sempre discussa in ogni disciplina e costantemente sottoposta all’indagine della scienza, l’idea che la specie umana sia divisa in razze, intese come gruppi all’interno della nostra specie, ciascuno caratterizzato da tratti fisici e comportamentali ben definiti, non è mai stata in alcun modo dimostrata con strumenti scientifici. Eppure è un’idea impossibile da sradicare dalle nostre menti, ancora oggi che una maggioranza schiacciante all’interno della comunità scientifica (e non solo) concorda sul fatto che si tratti di una bugia. La colpa, per così dire, potrebbe essere della nostra storia culturale ed evolutiva; apparentemente, un’eredità con radici troppo profonde per sradicarle con la sola forza della ragione.

INUTILI CATALOGHI. Le differenze, evidenti e innegabili, tra gruppi umani che popolano aree diverse del globo risalgono ai primordi della nostra specie; l’idea che queste differenze fisiche, frutto di adattamenti all’ambiente, implicassero anche differenze psicologiche e comportamentali profonde, al punto da poter distinguere (e ordinare) le diverse popolazioni del mondo, è nata solo alla fine del XV secolo, quando il colonialismo portò l’uomo occidentale, e la sua necessità di dominio, in ogni angolo del mondo. Tempo due secoli e i maggiori antropologi dell’epoca cominciarono ad affannarsi a catalogare le presunte razze, e a inventare un criterio valido e universale per distinguerle tra loro. Risultato? Niente di niente. 

Mentre la comunità scientifica dibatteva sul nulla, l’idea di “razza” era già diventata il più potente motore della nuova economia coloniale. Il trattamento riservato alle popolazioni africane deportate negli Stati Uniti per ridurle in schiavitù, per esempio, era la diretta conseguenza della loro appartenenza a un’altra razza, considerata intellettualmente inferiore. Nel XVIII secolo, intellettuali di tutto il mondo si appellarono alla cosiddetta scala naturae, l’ordine naturale (gerarchico) di tutte le specie viventi, e collocarono le popolazioni africane un gradino sotto la nostra. 

Il rafforzamento di questi stereotipi nella cultura popolare, anche grazie a una sapiente opera di propaganda dell’intera classe intellettuale dell’epoca, portò infine alle leggi (americane e inglesi in primis) contro i matrimoni misti.

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